tratto da:

Intellettuale ad Auschwitz di Jean Améry

Ai confini dello spirito

Sia prudente mi consigliò un amico mosso da buone intenzioni,quando venne a conoscenza del mio progetto di parlare dell'intellettuale ad Auschwitz.Mi raccomandò fermamente di indugiare il meno possibile su Auschwitz,e di soffermarmi invece sulle questioni spirituali. Era inoltre dell'idea che fosse opportuno rinunciare, nei limiti del possibile, a proporre fin dal titolo la parola Auschwitz,a causa delle prevenzioni del pubblico nei confronti di questo termine geografico. storico,politico Disse che su Auschwitz d'altronde vi sono già libri e documenti di ogni sorta: chi volesse descriverne le atrocità non racconterebbe alcunchè di nuovo. Dubito che il mio amico abbia ragione e perciò, quasi certamente,non potrò seguire il suo consiglio. Non ho la sensazione che su Auschwitz sia stato scritto quanto, ad esempio,sulla musica elettronica o sul Parlamento di Bonn.Inoltre continuo a pensare che sarebbe forse necessario introdurre determinati libri su Auschwitz come letture d'obbligo nelle classi superiori delle scuole secondarie e che più in generale,sarebbe doveroso usare meno riguardi nell'affrontare a livello politico la storia dello spirito. E' vero:in questa sede non ho intenzione di parlare genericamente di Auschwitz,non intendo fornire un resoconto documentaristico e mi sono invece proposto di affrontare il tema del confronto fra Auschwitz e spirito. Non potrò tuttavia evitare di parlare delle atrocità, di quegli avvenimenti al cospetto dei quali, come una volta disse Brecht,i cuori sono forti, ma deboli i nervi. Il mio tema è -Ai confini dello spirito-;non ho colpa io se questi confini sono segnati propio da sgradite atrocità. Volendo parlare dell'intellettuale o come si sarebbe detto in passato dell'-uomo dello spirito- ad Auschwitz,mi pare necessario definire dapprima l'oggetto del mio studio, appunto l'intellettuale. Chi è,nell'accezione da me proposta,un intellettuale o un uomo dello spirito? Non certo chiunque eserciti una cosidetta professione dell'ingegno; una formazione superiore rappresenta forse,in questo senso, una condizione necessaria ma non sufficiente. Ognuno di noi conosce avvocati, ingegneri, medici, probabilmente anche filologi, che sono certo intelligenti e nei loro ambiti di competenza magari anche eccellenti,e che tuttavia si esiterebbe a definire intellettuali. Un intellettuale, come io vorrei fosse qui inteso, è un essere umano che vive all'interno di un sistema di riferimento che è spirituale nel senso più vasto. L'ambito delle sue associazioni è essenzialmente umanistico o filosofico.Ha una coscienza estetica ben sviluppata.Per tendenza e attitudine è portato al ragionamento astratto.Ad ogni occasione gli si propongono catene associative della sfera della storia del pensiero. Se ad esempio gli fosse chiesto quale famoso nome associ alle sillabe -Lilien-, non gli verrebbe in mente Otto von Lilienthal,il precursore del volo a vela,bensì il poeta Detlev von Liliencron. Il termine -società-non lo intende in senso mondano ma sociologico. Il fenomeno fisico che porta al corto circuito non lo interessa; tuttavia conosce bene Neidhart von Reuenthal, il poeta cortese che s'ispirò al mondo contadino. Un intellettuale di tal fatta, dunque,un uomo che sa a memoria le strofe dei maggiori poeti, che conosce i quadri del Rinascimento e del Surrealismo, e si sa orientare nella storia della filosofia e della musica, questo intellettuale lo collocheremo dunque nel luogo in cui gli si pone il problema di avvalorare la realtà e l'efficacia del suo spirito, ovvero di dichiararle nulle; lo collocheremo in una situazione di confine: ad Auschwitz.
In tal modo, naturalmente, do una collocazione a me stesso.Nella mia doppia qualità di ebreo e di esponente della resistenza belga, ho soggiornato, oltre che a Buchenwald, a Bergen-Belsen e in altri campi di concentramento, per un anno anche ad Auschwitz e più precisamente nel Nebenlager [campo secondario] Auschwitz-Monowitz.La parolina-io-si riproporrà più frequentemente di quanto mi sia gradito, e in particolare ogniqualvolta non posso senz'altro attribuire anche a terzi la mia esperienza personale. In questo contesto è necessario innanzitutto considerare la condizione esteriore dell'intellettuale, condizione che egli divideva con tutti,anche con gli esponenti non intellettuali delle professioni cosidette dell'ingegno.
Era una posizione spiacevole che trovava la sua espressione più drammatica nella questione-decisiva per la vita o la morte-dell'inserimento nel lavoro. Ad Auschwitz-Monowitz coloro che esercitavano un lavoro manuale-se, per motivi che non approfondiremo in questa sede,non venivano mandati subito alle camere a gas-abitualmente venivano inquadrati in base al loro mestiere. Un fabbro ad esempio era un privilegiato, poichè poteva tornare utile nella fabbrica della IG-Farben allora in costruzione e aveva quindi la possibilità di lavorare al chiuso in un'officina, non esposto alle intemperie. Lo stesso dicasi per l'elettricista,l'idraulico,il falegname o il carpentiere. Il sarto o il ciabattino potevano magari avere la fortuna di finire in un locale dove si lavorava per le SS.Per il muratore,il cuoco,il radiotecnico,il meccanico per automobili esisteva la possibilità, sia pure quanto mai ridotta, di trovare un posto di lavoro sopportabile e quindi di farcela. Diversa la situazione per chi esercitava una professione dell'ingegno.
Al pari del commerciante,era parte del Lumpenproletariat del campo e ne condivideva il destino:era aggregato a un Kommando di lavoro destinato a scavare, posare cavi,trasportare sacchi di cemento o traversine di ferro.Nel campo diventava un operaio non qualificato,costretto a fare la sua parte all'aperto, e ciò solitamente significava che il suo destino era segnato.Vi erano naturalmente delle differenze. I chimici ad esempio, nel campo in questione,venivano utilizzati nella loro professione:accadde al mio compagno di baracca Primo Levi,autore di Se questo è un uomo, un libro dedicato alla sua esperienza ad Auschwitz. Per i medici esisteva la possibilità di rifugiarsi nei cosidetti Krankenbauten [infermerie].Ma naturalmente non ci riuscivano tutti.Il medico viennese Viktor Frankl, ad esempio,oggi psicologo di fama mondiale,ad Auschwitz-Monowitz per anni fece lo sterratore.In generale si può dire che gli esponenti delle professioni dell'ingegno per quanto concerne il lavoro si trovavano in una pessima situazione.Non a caso molti cercavano di celare la loro attività originaria. Chi aveva un minimo di attività pratiche,chi era magari capace di fare qualche lavoretto si spacciava arditamente per operaio,rischiando tuttavia la vita nel caso la bugia fosse stata scoperta.La maggior parte comunque cercava di salvarsi sminuendo la propia posizione.Interrogato circa la propa professione,il professore di liceo o universitario rispondeva timidamente -insegnante-,onde non provocare la furia selvaggia della SS o del Kapo. L'avvocato si trasformava nel più modesto contabile, il giornalista poteva magari spacciarsi per tipografo, tanto più che difficilmente avrebbe corso il rischio di dover dimostrare le sue capacità artigianali. Ed era così che docenti universitari,avvocati, bibliotecari,storici dell'arte, economisti, matematici si ritrovavano a portare rotaie,tubi e legname per costruzione. La loro abilità e la loro forza fisica erano di norma limitate e solitamente non si doveva attendere a lungo prima che fossero eliminati dal processo produttivo e trasferiti nell'adiacente campo principale, dove vi erano le camere a gas e i forni crematori.
Se era difficile la loro situazione sul lavoro, altrettanto si può dire per la condizione all'interno del campo,dove la vita richiedeva sopratutto agilità fisica e un coraggio che per forza di cose assomigliava molto alla brutalità.Entrambe qualità che i lavoratori dell'ingegno raramente possedevano; il coraggio morale che spesso volevano impiegare in sostituzione di quello fisico, non valeva un ficco secco.Si poteva ad esempio porre il problema di impedire a un borsaiolo professionista di Varsavia di rubarci le stringhe. In questi casi poteva tornare utile un buon cazzotto mentre era inservibile quell'ardimento spirituale che spinge un giornalista politico a mettere a repentaglio la propia esistenza pubblicando un articolo sgradito. Inutile precisare che solo molto raramente l'avvocato o l'insegnante liceale erano in grado di dare un pugno a regola d'arte e che anzi il più delle volte erano loro a subirlo:e in questi frangenti dimostravano di non essere, nell'incassare,molto più abili che nel dare. Gravi erano anche le questioni inerenti alla disciplina del campo di concentramento. Chi in precedenza aveva esercitato una professione dell'ingegno di norma non era molto abile nel Bettenbau[farsi il letto].
Ricordo compagni colti e istruiti,costretti ogni mattina a lottare, madidi di sudore, con il saccone e le coperte,senza per questo giungerea un qualunque risultato accettabile,cosicchè durante il lavoro erano dominati dall'angosciosa idea che una volta tornati al campo per punizione sarebbero stati percossi o privati del cibo.Non erano all'altezza né del rifarsi il letto, né dell'energico -Mùtzen ab!-[giù i berretti!], né, tantomeno, accecavano, nei confronti del Blochàltester[anziano della baracca] o della SS, quel modo di parlare vagamente deferente eppure consapevole, che talvolta consentiva di scansare un pericolo.Nel campo non godevano quindi della stima degli Hàftlingsvorgesetzten[superiori prigionieri] e dei compagni,e sul lavoro erano disprezzati dai lavoratori civili e dai Kapo. Ma c'è di peggio: essi non riuscivano nemmeno a farsi degli amici. Nella maggior parte dei casi erano costituzionalmente impediti a utilizzare spontaneamente il gergo del campo,l'unica forma accettata di comunicazione reciproca.Si discute molto oggi delle difficoltà di comunicazione dell'uomo moderno,sostenendo non di rado tesi assurde che sarebbe opportuno tacere.Ebbene, nel campo esisteva il problema dell'incomunicabilità tra l'uomo dello spirito e la maggior parte dei suoi compagni: si poneva in ogni istante in maniera reale,direi tormentosa.Il prigioniero abituato a un modo di esprimersi relativamente differenziato,solo al prezzo di un grande sforzo su sé stesso riusciva a dire Hau ab! [levati di torno!]o ad apostrofare esclusivamente con Mensch[tipo] il suo compagno di prigionia.Rammento sin troppo bene il disgusto fisico che mi afferrava perché un compagno, per altri versi dabbene e socievole, si rivolgeva a me usando esclusivamente l'espressione mein lieber Mann[caro mio]. L'intellettuale era insofferente a espressioni come Kùchenbulle [letteralmente:toro da cucina;cuoco],organisieren[organizzare;termine con il quale si definiva l'appropazione illecita di oggetti],e persino formulazioni come auf Transport gehen[essere trasferiti],le proferiva molto mal volentieri.
Detto questo arrivo ai fondamentali problemi psicologici ed esistenziali della vita nel campo,e dell'intellettuale nell'accezione limitata del termine che ho tratteggiato in precedenza. La questione di fondo potrebbe essere riassunta nel modo seguente:la cultura e il sostrato intellettuale nei momenti decisivi sono stati di ausilio al prigioniero del campo?L'hanno aiutato a resistere?Quando mi posi questa domanda,dapprima non pensai alla mia esistenza quotidiana ad Auschwitz, ma al bel libro di un amico e compagno di sventura olandese, lo scrittore Nico Rost,intitolato Goethe in Dachau.

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