Sia prudente mi consigliò
un amico mosso da buone
intenzioni,quando venne
a conoscenza del mio
progetto di parlare
dell'intellettuale ad
Auschwitz.Mi raccomandò
fermamente di indugiare
il meno possibile su
Auschwitz,e di soffermarmi
invece sulle questioni
spirituali.
Era inoltre dell'idea che
fosse opportuno rinunciare,
nei limiti del possibile,
a proporre fin dal titolo
la parola Auschwitz,a causa
delle prevenzioni del
pubblico nei confronti
di questo termine geografico.
storico,politico
Disse che su Auschwitz
d'altronde vi sono già libri
e documenti di ogni sorta:
chi volesse descriverne le
atrocità non racconterebbe
alcunchè di nuovo.
Dubito che il mio amico
abbia ragione e perciò,
quasi certamente,non potrò
seguire il suo consiglio.
Non ho la sensazione che su
Auschwitz sia stato scritto
quanto, ad esempio,sulla
musica elettronica o sul
Parlamento di Bonn.Inoltre
continuo a pensare che sarebbe
forse necessario introdurre
determinati libri su Auschwitz
come letture d'obbligo nelle
classi superiori delle scuole
secondarie e che più in
generale,sarebbe doveroso
usare meno riguardi
nell'affrontare a livello
politico la storia dello
spirito.
E' vero:in questa sede non
ho intenzione di parlare
genericamente di Auschwitz,non
intendo fornire un resoconto
documentaristico e mi
sono invece proposto di
affrontare il tema del
confronto fra Auschwitz
e spirito.
Non potrò tuttavia evitare
di parlare delle atrocità,
di quegli avvenimenti al
cospetto dei quali, come una
volta disse Brecht,i cuori sono
forti, ma deboli i nervi.
Il mio tema è -Ai confini dello
spirito-;non ho colpa io se
questi confini sono segnati
propio da sgradite atrocità.
Volendo parlare
dell'intellettuale o come
si sarebbe detto in passato
dell'-uomo dello spirito-
ad Auschwitz,mi pare necessario
definire dapprima l'oggetto
del mio studio, appunto
l'intellettuale.
Chi è,nell'accezione da me
proposta,un intellettuale
o un uomo dello spirito?
Non certo chiunque eserciti
una cosidetta professione
dell'ingegno;
una formazione superiore
rappresenta forse,in questo senso,
una condizione necessaria
ma non sufficiente.
Ognuno di noi conosce avvocati,
ingegneri, medici,
probabilmente anche filologi,
che sono certo intelligenti
e nei loro ambiti di competenza
magari anche eccellenti,e che
tuttavia si esiterebbe a definire
intellettuali.
Un intellettuale,
come io vorrei fosse
qui inteso, è un essere
umano che vive all'interno di un
sistema di riferimento che è
spirituale nel senso più vasto.
L'ambito delle sue associazioni
è essenzialmente umanistico o
filosofico.Ha una coscienza
estetica ben sviluppata.Per
tendenza e attitudine è portato
al ragionamento astratto.Ad ogni
occasione gli si propongono
catene associative della sfera
della storia del pensiero.
Se ad esempio gli fosse chiesto
quale famoso nome associ alle
sillabe -Lilien-,
non gli verrebbe
in mente Otto von Lilienthal,il
precursore del volo a vela,bensì
il poeta Detlev von Liliencron.
Il termine -società-non lo
intende in senso mondano ma
sociologico.
Il fenomeno fisico che porta
al corto circuito non
lo interessa;
tuttavia conosce bene
Neidhart von Reuenthal, il poeta
cortese che s'ispirò al mondo
contadino.
Un intellettuale di tal fatta,
dunque,un uomo che sa a memoria
le strofe dei maggiori poeti,
che conosce i quadri del
Rinascimento e del Surrealismo,
e si sa orientare
nella storia della filosofia
e della musica,
questo intellettuale
lo collocheremo dunque nel luogo
in cui gli si pone il problema
di avvalorare la realtà
e l'efficacia del suo spirito,
ovvero di dichiararle nulle;
lo collocheremo in una situazione
di confine: ad Auschwitz.
In tal modo, naturalmente, do una collocazione a me stesso.Nella mia doppia
qualità di ebreo e di esponente della resistenza belga, ho soggiornato, oltre
che a Buchenwald, a Bergen-Belsen e in altri campi di concentramento,
per un anno anche ad Auschwitz e più precisamente nel Nebenlager
[campo secondario] Auschwitz-Monowitz.La parolina-io-si riproporrà più
frequentemente di quanto mi sia gradito, e in particolare ogniqualvolta
non posso senz'altro attribuire anche a terzi la mia esperienza personale.
In questo contesto è necessario innanzitutto considerare la condizione
esteriore dell'intellettuale, condizione che egli
divideva con tutti,anche con gli esponenti non intellettuali
delle professioni cosidette dell'ingegno.
Era una posizione spiacevole che trovava la sua espressione più drammatica
nella questione-decisiva per la vita o la morte-dell'inserimento nel lavoro.
Ad Auschwitz-Monowitz coloro che esercitavano un lavoro manuale-se, per motivi
che non approfondiremo in questa sede,non venivano mandati subito alle camere
a gas-abitualmente venivano inquadrati in base al loro mestiere.
Un fabbro ad esempio era un privilegiato, poichè poteva tornare utile
nella fabbrica della IG-Farben allora in costruzione e aveva quindi la possibilità
di lavorare al chiuso in un'officina, non esposto alle intemperie.
Lo stesso dicasi per l'elettricista,l'idraulico,il falegname o il carpentiere.
Il sarto o il ciabattino potevano magari avere la fortuna di finire in un locale
dove si lavorava per le SS.Per il muratore,il cuoco,il radiotecnico,il
meccanico per automobili esisteva la possibilità, sia pure quanto mai ridotta,
di trovare un posto di lavoro sopportabile e quindi di farcela.
Diversa la situazione per chi esercitava una professione dell'ingegno.
Al pari del commerciante,era parte del Lumpenproletariat del campo
e ne condivideva il destino:era aggregato a un Kommando di lavoro destinato a scavare,
posare cavi,trasportare sacchi di cemento o traversine di ferro.Nel campo diventava un operaio
non qualificato,costretto a fare la sua parte all'aperto, e ciò solitamente
significava che il suo destino era segnato.Vi erano naturalmente delle differenze.
I chimici ad esempio, nel campo in questione,venivano utilizzati nella loro
professione:accadde al mio compagno di baracca Primo Levi,autore di
Se questo è un uomo, un libro dedicato alla sua esperienza ad Auschwitz.
Per i medici esisteva la possibilità di rifugiarsi nei cosidetti Krankenbauten
[infermerie].Ma naturalmente non ci riuscivano tutti.Il medico viennese
Viktor Frankl, ad esempio,oggi psicologo di fama mondiale,ad Auschwitz-Monowitz
per anni fece lo sterratore.In generale si può dire che gli esponenti delle
professioni dell'ingegno per quanto concerne il lavoro si trovavano in una
pessima situazione.Non a caso molti cercavano di celare la loro attività originaria.
Chi aveva un minimo di attività pratiche,chi era magari capace di fare qualche lavoretto
si spacciava arditamente per operaio,rischiando tuttavia la vita nel caso
la bugia fosse stata scoperta.La maggior parte comunque cercava di salvarsi
sminuendo la propia posizione.Interrogato circa la propa professione,il professore
di liceo o universitario rispondeva timidamente -insegnante-,onde non
provocare la furia selvaggia della SS o del Kapo.
L'avvocato si trasformava nel più modesto contabile, il giornalista poteva
magari spacciarsi per tipografo, tanto più che difficilmente avrebbe corso
il rischio di dover dimostrare le sue capacità artigianali.
Ed era così che docenti universitari,avvocati, bibliotecari,storici dell'arte,
economisti, matematici si ritrovavano a portare rotaie,tubi e legname per costruzione.
La loro abilità e la loro forza fisica erano di norma limitate e solitamente
non si doveva attendere a lungo prima che fossero eliminati dal processo
produttivo e trasferiti nell'adiacente campo principale, dove vi erano le camere
a gas e i forni crematori.
Se era difficile la loro situazione sul lavoro, altrettanto si può
dire per la condizione all'interno del campo,dove la vita richiedeva sopratutto
agilità fisica e un coraggio che per forza di cose assomigliava molto
alla brutalità.Entrambe qualità che i lavoratori dell'ingegno raramente possedevano;
il coraggio morale che spesso volevano impiegare in sostituzione di
quello fisico, non valeva un ficco secco.Si poteva ad esempio porre il problema
di impedire a un borsaiolo professionista di Varsavia di rubarci le stringhe.
In questi casi poteva tornare utile un buon cazzotto mentre era inservibile
quell'ardimento spirituale che spinge un giornalista politico a mettere
a repentaglio la propia esistenza pubblicando un articolo sgradito.
Inutile precisare che solo molto raramente l'avvocato o l'insegnante
liceale erano in grado di dare un pugno a regola d'arte e che anzi il più
delle volte erano loro a subirlo:e in questi frangenti dimostravano di
non essere, nell'incassare,molto più abili che nel dare.
Gravi erano anche le questioni inerenti alla disciplina del campo
di concentramento.
Chi in precedenza aveva esercitato una professione dell'ingegno
di norma non era molto abile nel Bettenbau[farsi il letto].
Ricordo compagni colti e istruiti,costretti ogni mattina a lottare, madidi
di sudore, con il saccone e le coperte,senza per questo giungerea un
qualunque risultato accettabile,cosicchè durante il lavoro erano dominati
dall'angosciosa idea che una volta tornati al campo per punizione sarebbero
stati percossi o privati del cibo.Non erano all'altezza né del rifarsi il letto,
né dell'energico -Mùtzen ab!-[giù i berretti!], né, tantomeno,
accecavano, nei confronti del Blochàltester[anziano della baracca]
o della SS, quel modo di parlare vagamente deferente eppure consapevole,
che talvolta consentiva di scansare un pericolo.Nel campo non godevano quindi
della stima degli Hàftlingsvorgesetzten[superiori prigionieri] e dei
compagni,e sul lavoro erano disprezzati dai lavoratori civili e dai Kapo.
Ma c'è di peggio: essi non riuscivano nemmeno a farsi degli amici.
Nella maggior parte dei casi erano costituzionalmente impediti a utilizzare
spontaneamente il gergo del campo,l'unica forma accettata di comunicazione
reciproca.Si discute molto oggi delle difficoltà di comunicazione dell'uomo
moderno,sostenendo non di rado tesi assurde che sarebbe
opportuno tacere.Ebbene, nel campo esisteva il problema dell'incomunicabilità
tra l'uomo dello spirito e la maggior parte dei suoi compagni: si poneva
in ogni istante in maniera reale,direi tormentosa.Il prigioniero
abituato a un modo di esprimersi relativamente differenziato,solo
al prezzo di un grande sforzo su sé stesso riusciva a dire Hau ab!
[levati di torno!]o ad apostrofare esclusivamente con Mensch[tipo]
il suo compagno di prigionia.Rammento sin troppo bene il disgusto
fisico che mi afferrava perché un compagno, per altri versi dabbene e socievole,
si rivolgeva a me usando esclusivamente l'espressione mein lieber Mann[caro mio].
L'intellettuale era insofferente a espressioni come Kùchenbulle
[letteralmente:toro da cucina;cuoco],organisieren[organizzare;termine
con il quale si definiva l'appropazione illecita di oggetti],e persino
formulazioni come auf Transport gehen[essere trasferiti],le proferiva
molto mal volentieri.
Detto questo arrivo ai fondamentali problemi psicologici ed esistenziali
della vita nel campo,e dell'intellettuale nell'accezione limitata
del termine che ho tratteggiato in precedenza.
La questione di fondo potrebbe essere riassunta nel modo seguente:la cultura
e il sostrato intellettuale nei momenti decisivi sono stati di ausilio
al prigioniero del campo?L'hanno aiutato a resistere?Quando mi posi questa
domanda,dapprima non pensai alla mia esistenza quotidiana ad Auschwitz, ma
al bel libro di un amico e compagno di sventura olandese, lo
scrittore Nico Rost,intitolato Goethe in Dachau.
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